Quest’anno, il 26 marzo 2003, mi sono laureato in etnomusicologia al DAMS di Bologna. Il relatore doveva essere Roberto Leydi ma, come tutti sanno, il professore è morto il 15 febbraio. La copia della mia tesi, dal titolo L’organetto nelle Marche centrali, l’aveva firmata il 4 dello stesso mese nel corso di un ricevimento informale che mi concesse a Bologna, nel suo studio, all’Istituto Superiore di Studi Umanistici.
Di fatto sono stato, purtroppo, uno degli ultimi studenti ad incontrarlo e probabilmente l’ultimo a divenire suo laureando. Dettaglio di poco conto per molti ma sicuramente non per chi ha conosciuto il professore all’università ed ha frequentato le sue lezioni. Forse questi colleghi capiranno il mio stato d’animo in questo momento; il sentirmi, cioè, una sorta di ultimo apostolo o meglio di ultimo animale ad entrare nellarca di Noè.
Il professore è stato infatti un grande maestro ed un grande “salvatore” di cervelli.
Arrivai al DAMS nel 1990, dalla provincia marchigiana, quando i banchi dell’università erano ancora caldi dell’ultima occupazione, quella della cosiddetta “Pantera”.
Da subito mi resi conto che la mitica portata rivoluzionaria del DAMS c’era ma non stava negli studenti, singoli o organizzati politicamente o culturalmente, ma nelle materie di insegnamento e, soprattutto, nei professori. A tale proposito l’incontro con Leydi e con la “sua” etnomusicologia fu, per me, una folgorazione.
Potrei perdermi, ora, nel descrivere la prima volta che assistetti ad una sua lezione, senza sapere neanche chi fosse, presso la sala Fiorentini, dietro Via D’Azeglio; potrei parlare dei suoi sigari toscani, dei suoi nastri, dei suoi aneddoti, del suo chiedere a ciascuno studente il paese di provenienza (e del suo conoscere, in qualche modo, ciascun paese che gli si citava); potrei soffermarmi sul suo farci domande su argomenti che dovevamo conoscere bene ma che nessuno, incredibilmente, conosceva abbastanza, né gli studenti provenienti dai licei né quelli, come me, provenienti dagli istituti tecnici: le guerre di indipendenza, il concilio di Trento, i flussi migratori degli italiani in America, ecc.
Non farò nulla di tutto questo ma vi parlerò brevemente della mia esperienza con Leydi, assicurandovi, nello stesso tempo, che tutti quelli che lo ascoltavano, per un verso o per l’altro, rimanevano sconcertati di fronte al suo carisma e, in generale, all’interdisciplinarietà dell’approccio etnomusicologico agli studi musicali.
Per me e per gli studenti che, come me, sono borghesi di seconda generazione, l’etnomusicologia e la ricerca sul campo hanno assunto una importanza dal punto di vista personale oltre che da quello astrattamente scientifico. L’inizio dell’indagine a partire dalle nostre famiglie ci ha fatto pacificare con il nostro passato e con la nostra cultura. Potevamo, infatti, trovare in casa qualche libro o scritto dei nostri genitori ma spesso nessuno appartenuto ai nostri nonni contadini, ancorché sapessero leggere e scrivere. Solo nel momento in cui siamo riusciti ad entrare nell’universo sonoro di questi ultimi e poi, a partire da lì, in altri aspetti della loro cultura orale, siamo riusciti a riappropriarci di un patrimonio che avevamo perso, assieme alla nostra identità.
Per noi Leydi è stato la guida per compiere questo passaggio, per realizzare questa iniziazione.
Il tutto non solo grazie alla sua competenza scientifica ma soprattutto grazie alle sue doti umane. Non è banale o scontato sottolineare questo.
Trovare una persona, ad esempio, disposta come lui a condividere un percorso di ricerca e ad agevolarlo fornendo sussidi bibliografici e documentari editi ed inediti non è facile, anzi, è quasi impossibile. Ciò a causa di quelle diffuse e non giustificabili “ragioni di malinteso spirito collezionistico” che lo stesso Leydi ha denunciato nei suoi scritti. Il professore, invece, metteva a disposizione il suo archivio privato ed il suo tempo a prescindere dai suoi doveri istituzionali.
Altro aspetto indimenticabile è la grande capacità relazionale del professore nei confronti degli informatori. Ho avuto la fortuna di assistere ad un incontro che ebbe con un musicista popolare. Fu altamente formativo per me osservare proprio il tipo di rapporto umano che si instaurò subito tra i due: profondo perché disinteressato, ovvero scaturito dalla innata curiosità del professore e dalla sua volontà di capire innanzitutto le vicende umane e i più disparati percorsi di vita dei suoi interlocutori, fossero essi studenti o informatori.
Leydi aveva il “demone” della ricerca e lo trasmetteva facilmente a chi gli stava attorno. Negli ultimi incontri che ebbi con lui abbiamo passato il tempo a parlare di approfondimenti che avrei potuto realizzare dopo la discussione della tesi. Riguardavano sempre l’organetto, la fisarmonica, Castelfidardo, l’industria della fisarmonica ed i suoi canali commerciali. Il professore, infatti, sapeva che, grazie al lavoro svolto per la tesi, avevo iniziato a suonare anche l’organetto, oltre alla fisarmonica. Non solo: sapeva pure che da alcuni anni avevo iniziato a lavorare in una fabbrica produttrice di questi strumenti. Era consapevole, in definitiva, del mio stare quotidianamente immerso in un ambiente interessante per la ricerca e quindi mi esortava a continuarla anche dopo la laurea.
Nel penultimo incontro mi chiese di spedirgli una copia completa della mia tesi, di cui stavo terminando la stesura, così, disse, “imparerò anch’io qualcosa in più sull’organetto”.
Io ho frequentato Leydi solo in ambito universitario. Non ho avuto un’esperienza diretta di questo grande uomo in altri contesti. Sono stato solamente uno dei suoi tanti studenti. Questo è bastato però per cambiarmi la vita.
O Pitriò ’ mmia, di ’: comme sci fatto
pe’ ‘ngatenamme tando forte ‘r-core?! …
Così scriveva l’illustre ricercatore e poeta petriolese Giovanni Ginobili rivolgendosi alla sua città natale nella poesia Pitriò’ mmia. Mi piace citare questi versi, riprendere questa domanda e girarla però a Domenico Ciccioli e a tutti i cantori e suonatori del gruppo di Petriolo che proprio da questa poesia prende il nome di Pitriò’ mmia: ma come avete fatto a ‘ngatenamme tando forte ‘r-core?
Eh sì, come Petriolo incatena il cuore di chiunque abbia la possibilità di visitare le splendide colline della val di Chienti, così il gruppo di autentici portatori della tradizione popolare marchigiana Pitriò’ mmia incatena il cuore di chi abbia la fortuna di ascoltare la sua musica popolare.
Tra gli estimatori del gruppo si potrebbero citare più generazioni di appassionati, cultori e studiosi di musica popolare. Mi limito a ricordare un solo nome, quello del mio professore e compianto maestro Roberto Leydi che ogni qualvolta proponeva esempi di musica popolare marchigiana ai suoi studenti lo faceva utilizzando le registrazioni di Domenico e dei suoi colleghi.
Il gruppo di Petriolo infatti, fin dalla sua costituzione nel 1970, si è subito rivelato come il più rappresentativo delle Marche centrali grazie ad alcuni forti peculiarità che ancora oggi lo contraddistinguono.
Innanzitutto il repertorio veramente enciclopedico, che comprende tutte le possibili manifestazioni tradizionali del fare musica marchigiano. Oltre al saltarello, alla castellana, ai canti rituali di questua, ai canti narrativi e ai canti infantili, il gruppo si contraddistingue per la conoscenza e la pratica di vari generi di canti lirico-monostrofici veramente rappresentativi della civiltà contadina marchigiana. In particolare ha mantenuto vivi e ha fatto conoscere al pubblico della musica popolare i canti monodici che venivano eseguiti durante i lavori agricoli e soprattutto i canti polivocali, ovvero i canti a vatoccu (o a batoccu), definiti da Arcangeli canti di sosta dal lavoro. E poi serenate, canti alla birbantesca, stornelli d’amore: il tutto rappresenta pienamente la nostra musica popolare marchigiana, quella che in una lettera al Ginobili il compositore maceratese Lino Liviabella definiva “l’iridata sorgente di lievissima freschezza che vince ogni polemica sull’arte per ricondurci nell’incanto inaspettato di stupite purezze”.
Tale già vasto repertorio è ancora oggi in espansione vista la continua attività di ricerca del gruppo, sia nel proprio paese che nei paesi limitrofi. E qui sta un altro elemento caratteristico di Pitriò’ mmia, già sottolineato da Pierluigi Navoni e Renata Meazza nel 1977 assieme all’interessante fenomeno di revival interno innestato dal gruppo stesso grazie alla sua costante attività nell’ambito di feste e sagre del maceratese.
Negli ultimi anni Domenico Ciccioli, leader della formazione e componente del gruppo fin dall’inizio, si è dedicato anche ad alcune autoproduzioni discografiche, più o meno artigianali ma sempre molto interessanti ed importantissime. La presente riguarda il gruppo al completo, che si presenta qui per la prima volta compiutamente nella sua nuova, attuale formazione.
Senza briglie di alcun tipo imposte da ricercatori o curatori del caso, Domenico ha potuto tirar fuori brani splendidi che finora nelle registrazioni “ufficiali” erano restati esclusi.
Mi riferisco, alle varie Passioni tra le quali sorprendente è la “Divina Stella” (che in realtà è un canto di cantastorie di argomento religioso eseguito sulla melodia della tradizionale Passione). Oppure al repertorio infantile, in gran parte inedito. E che dire, tra gli stornelli, di quei due splendidi cammei che trattano della Morte e … della ‘Nsalata! Raccolti nella stessa sezione ci presentano una summa della nostra cultura tradizionale: l’immanenza della morte nella vita quotidiana porta a vivere con entusiasmo il quotidiano, a partire dal soddisfacimento di un bisogno primario come quello del cibo; all’impotenza nei confronti di un futuro incerto e oscuro si risponde agendo sul presente, adoperandosi per renderlo il più ricco e … saporito possibile!
Roberto Lucanero, Porto Recanati 23 giugno 2009.
Esco dall’ufficio in fretta, saluto i colleghi solo dopo aver già chiuso la porta dietro di me e del mio impermeabile al braccio che mi infilo velocemente in ascensore. Piove. Salgo sul primo taxi libero dopo aver comperato un piccolo mazzo di rose, rosse. E’ il nostro primo appuntamento: sono in ritardo. Nel taxi ascolto musica egiziana in cui una fisarmonica quasi irreale si miscela a degli archi ondeggianti e a delle percussioni da danza del ventre. Spero sia il preludio ad una serata movimentata.
Finalmente arrivo: lei è già seduta nel ristorante. E’ la prima volta che un uomo la fa attendere ed è visibilmente irritata. Raggiungo il tavolo, appoggio le rose sulla mia seggiola e la prendo per mano facendola alzare: le impedisco di pronunciare quelle frasi sarcastiche sul mio ritardo che aveva rimuginato tra sé e sé per i venti minuti d’attesa e, giocando d’anticipo, la porto a ballare. Come mandato dalla provvidenza arriva un tango italiano enfatico e melenso, suonato con passione dall’orchestra del locale. Balliamo senza parlare e tutto inizia bene.
Io so che potrei amarla, lei già mi ama. Ci sediamo, mangiamo imparando a conoscerci. Al dessert il fisarmonicista inizia a suonare How High the Moon. Mi ritorna in mente un altro appuntamento in un'altra città, un altro amore che per un attimo rimpiango. Un amore di certo più fumoso, più improvvisato, senza rose e senza cena, solo Vodka and Tonic in un jazz club e Art che svisava su di una fisa gigante la cui mascherina sembrava il radiatore di una Cadillac. Mi distraggo e lei si accorge, sta quasi per iniziare la frase cattiva sul ritardo ma … tun-titi-tun-tun… Rrrumba!!
Ritorno da lei con il corpo e con la mente ballando ancora e rendendomi conto che un attimo di nostalgia può compromettere il più mirabolante futuro. Continuiamo la serata serenamente, pizzicandoci come due innamorati al primo appuntamento: lancio stoccate con le parole e mi difendo parando con i balli. Il fisarmonicista sembra essere complice di tutto questo, navigando con la sua band attraverso generi musicali inconsueti per un ristorante ma necessari, in quel momento, per i nostri cuori appena incontratisi.
Lei è bellissima. E’ avvolta nel suo abito da sera rosso bordeaux, che sembra scintillare clamorosamente infrangendosi contro il mio gessato bianco quando balliamo avvinghiati sulle note di una ballad o quando ci scateniamo respingendoci e riabbracciandoci in frenetici ritmi cubani. Si muove con scioltezza sulle sue scarpe eleganti dal tacco medio che usciti dal ristorante si toglie per volteggiare liberamente a piedi nudi e braccia aperte sul prato del parco che attraversiamo per raggiungere casa sua, cantando a squarciagola la parodia di un valzer viennese che poco prima avevamo ballato con serietà ed aplomb, accompagnati dall’orchestra.
Di lì a qualche ora, sono di ritorno al mio appartamento da scapolo dall’altra parte della città. E’ già mattino e mi trovo nell’ennesimo taxi, con al volante un patito di musica Musette. Cerco di ricordare il volto di quel fisarmonicista della sera prima che mi ha accompagnato come un angelo custode nei primi passi del mio nuovo amore. Non ci riesco. Ricordo ogni nota della sua musica ma non il suo volto.
Ricordo le sue mani, con un rubino da fisarmonicista all’anulare destro, ricordo la sua fisarmonica nera con qualche perlina che, riflettendo la poca luce rompeva la penombra, ma non ricordo il suo volto. Arrivo a casa, finalmente un po’ di silenzio nell’ambiente, ma dentro la mia testa risuona il tema di Jeanne di Ultimo Tango a Parigi. Apro l’armadio e prendo la vecchia fisarmonica di mio padre: cerco di far uscire fuori la musica che ho in mente ma non ci riesco. Da domani cercherò un maestro di fisarmonica.
Con la passione, la lucidità e la perizia tecnica dei grandi maestri Gianni Coscia ci propone la sua ultima opera discografica: Il Bandino.
In ambito jazzistico il disco è da sempre testo unico, documento esclusivo su cui basare lo studio e l’analisi di autori, interpreti ed opere, data la mancanza di partiture onnicomprensive (come per la musica classica) e il lavoro di instant composer effettuato non solo dai leader, ma da tutti componenti di rilievo delle formazioni. Disco quindi come mezzo per fissare un momento, una delle tante (ma non infinite) possibilità di presentazione dell’opera e disco (soprattutto oggi, data la situazione più che mai eterogenea nel jazz) per esplicitare una poetica. Coscia è pienamente dentro quest’ottica e, nel corso del work in progress che conduce da anni con i suoi collaboratori, ci presenta qui come sempre un risultato coerente, un punto d’arrivo che sarà comunque la partenza per i suoi futuri lavori: non cerca un prodotto vendibile accostando materiale raccogliticcio a qualcosa di buono (come avviene quasi sempre nella musica leggera e a volte anche nel jazz), ma un mezzo per documentare il punto attuale della sua evoluzione artistica e personale.
Il Bandino è infatti il risultato di un lavoro che nasce subito dopo La Briscola (disco del 1989), e i suoi pezzi sono stati a lungo meditati e suonati in concerto con varie formazioni nel corso degli anni che separano le due uscite discografiche: dal sestetto, al quartetto, al solo. E’ ascoltandoli in “fisa-sola” che i brani dimostrano la propria solidità alle radici: il risultato è quello dei capolavori di Pietro Deiro e di Luciano Fancelli; non è né misero, né riduttivo, è essenziale ed efficace. L’esecuzione in solo, contenendo le caratteristiche forti dei brani, poi diluite e sviluppate a seconda del gruppo, è come il punto centrale di una serie di cerchi concentrici che, pur allargandosi ad ogni livello successivo, mantengono la loro geometrica perfezione anche se presi singolarmente. Il “cerchio” in questione nel Bandino è quello dell’ottetto, che nasce dall’inserimento nel sestetto già sperimentato precedentemente di due strumenti gravi, il bombardino e la tuba, che oltre a definire ulteriormente la brillantezza della fisarmonica, del clarinetto e del sax soprano, caratterizzano con il loro timbro e la loro estensione tutta l’operazione, rimandando direttamente alla banda musicale ed alla tradizione popolare. Una piccola banda, quindi un … Bandino.
I quarantacinque minuti del disco sono divisi soltanto in cinque brani considerabili infatti come “suite” contenenti ciascuna diversi temi e diverse situazioni musicali. In ogni pezzo il tema principale, presentandosi ciclicamente, funge da cornice all’intero quadro. La fisarmonica del leader, intervenendo in solo, fa spesso da raccordo alle varie parti, ora sintetizzando i temi esposti poi dal collettivo, ora presentando interludi o introduzioni ad altre sezioni. Tutti gli altri strumentisti partecipano in maniera fondamentale al progetto ed anche le parti affidate loro in assolo si inseriscono con naturalezza tra quelle arrangiate. Le loro inconfondibili voci strumentali salgono alla ribalta in una successione mai scontata e con combinazioni che vanno dal solo al tutti, come personaggi di una efficace rappresentazione teatrale la cui scenografia è di volta in volta costituita da ritmi, armonie ed accompagnamenti funzionali alla storia. In ogni “rappresentazione”, continuando col paragone, si può dire che Coscia funga ora da voce recitante (nei pezzi solitari di cui sopra), ora da attore inserito nella’azione (negli assoli e nelle parti in cui suona con gli altri).
Come il Duke Ellington dei floor shows al Cotton Club, il fisarmonicista per narrarci le sue storie gioca con i generi, facilmente riconoscibili ed appropriabili nel loro significato simbolico, anche se sempre interpretati in maniera originale, stilizzata, distaccandoli dal crudo realismo per immetterli in una dimensione di sogno: si avvicendano quindi mazurke jazzate, valzer, filastrocche, ritmi sudamericani nell’assimilazione europea della balera o del night anni ’50, fanfare paesane e perfino collettivi in eterofonia stile New Orleans. La narratività della musica diventa anche narrazione letteraria vera e propria nelle note di copertina in cui per ogni titolo Coscia scrive una piccola storia. I racconti aggiungono un colore in più, una ulteriore connotazione, questa volta più privata, ai brani musicali; ci proiettano di fronte il panorama di riferimento più intimo dell’autore. Per noi ciò non è vincolante nel processo di fruizione, non è opprimente; è anzi interessante confrontare l’immaginario dell’autore con i profumi, le immagini e le emozioni che Il Bandino ha tirato a galla dalla nostra memoria di vita vissuta o immaginata. Ritroviamo gli stessi luoghi simbolo (il lavoro dei campi, la giostra, la festa di piazza, la banda) presenti nella naiveté comune della nostra tradizione.
Come molti maestri storici del jazz narrano con la musica le vicende del popolo nero d’America (la deportazione, la schiavitù, la nostalgia per luoghi mitici ormai perduti), Coscia ci porta per mano in un viaggio fantastico che conduce alla vita contadina del dopoguerra, ai valori ed alle tradizioni ad essa legate e ormai destinate a perdersi. La fisarmonica è il mezzo principale per questo viaggio. Il suo timbro, unito al colorito modo di suonare del suo interprete, ricco di rimandi ad un sistema popolare di concepire gli accenti ed il suono, fa da ideale macchina del tempo. Coscia però non cade nello stereotipo e qui sta la sua grandezza: organizza con un lavoro di anni una formazione in cui tutti i musicisti, a partire dal suo alter ego Gianluigi Trovesi, si immedesimano nel contesto da lui creato e partecipano in maniera trainante all’operazione. La fisarmonica non porta quindi un marchio di rusticità e di primitivismo (come avviene sempre più spesso nel rap, nel rock e nella musica mediterranea) e si scrolla di dosso anche il modello ormai opprimente – dato l’abuso – del tango piazzolliano a tutti i costi e del valzer-jazz francese: è uno strumento musicale tra gli altri, con i suoi intrinseci rimandi simbolici, ma depurato da ideologie populiste o “puriste”, che partecipa con gli altri al perseguimento di un fine comune: l’opera d’arte.
Un'esortazione al movimento, in sardo, Ajò, è il titolo dell'ultimo disco di Enzo Favata per la New Tone Records. Nel viaggio che ne scaturisce il sassofonista di Alghero è in compagnia, tra gli altri, del bandoneonista argentino Dino Saluzzi, da sempre orientato verso i territori del folclore immaginario.
Nella musica di Saluzzi il tango non è una forma né un ritmo ma è presente in quella dimensione metafisica che, secondo lo scrittore Ernesto Sabato, è la causa dellla universalità e della permanenza del tango stesso nella cultura argentina. Saluzzi ha recentemente inciso per l'etichetta Ecm il disco "Citè de la Musique" con suo figlio José Maria alla chitarra e Marc Johnson al contrabbasso. "La realtà del folclore non la conosco - dice Saluzzi - non ci ho mai pensato". Quello con Favata è dunque un incontro tra diversi orizzonti ideali. "La nostra musica pesca dalla tradizione ma non è la tradizione - dice il sassofonista, reduce pure da "Contami unu cantu" un'antologia di racconti popolari della zona di Logudoro. - Ho scoperto tuttavia che ci sono delle forti analogie tra un tipo di musica andina (Saluzzi è nato a Salta, città vicina alle Ande, nel 1935) e le nodas della musica sarda da ballo. Il nostro è stato un incontro, non un confronto; - continua Saluzzi - non è stato per me un fare assoli su musica estranea".
Come valuti il modo di rapportarsi alla tradizione musicale in Sardegna rispetto a quello possibile in Argentina?
In Sardegna è molto vantaggioso. La tradizione qui può essere un punto di partenza per nuove condizioni di vita e di pensiero; in Argentina invece è intoccabile, non si può sviluppare. Siamo tradizionalisti ad oltranza. I cantanti più bravi, ad esempio, devono ancora fare i conti con il fantasma di Carlos Gardel che è tuttora il re del tango. Non ho mai capito perché qualcuno deve diventare il re di qualcosa: non è buono per le relazioni umane. L'affermazione "Gardel ogni giorno canta meglio" è entrata stabilmente nella mitologia argentina. Nasce da un accostamento tra la voce del celeberrimo cantante e il meraviglioso canto del Sorzal, uccello tipico della Pampa. La cosa peggiore è che questa celebrazione ininterrotta di Gardel toglie opportunità ai cantanti delle nuove generazioni: è impossibile per loro combattere contro un morto, un mito.
Tu però sei andato oltre. Con il bandoneon non riproponi gli stereotipi della musica popolare. Hai avuto dei problemi nel far questo?
Sicuro. Non solo davanti al pubblico e alla critica ma anche rispetto alla politica ed alle autorità, al potere. Durante la dittatura militare sono stato arrestato senza sapere il perché.
C'è un impegno politico nella tua musica?
No. Nell'arte non c'è alcun impegno, c'è solo l'estetica. Il bello deve avere esclusivamente un tipo di responsabilità estetica di fronte alla storia. Non compongo per evangelizzare col mio pensiero, non ho una seconda intenzione. Compongo e basta. Penso inoltre che chi crede di rivoluzionare con la propria opera la storia dell'arte, facendo qualcosa che non sia mai stato fatto, sbaglia totalmente.
E il tuo rapporto con il jazz?
Non ho mai suonato il jazz. Non so come si suona. Io faccio la mia musica che si può suonare insieme al jazz. Non si deve essere chiusi e non bisogna pensare che il jazz sia l'unica musica dove è possibile avere libertà di improvvisazione. Il tango può andare nelle mani del jazz e il jazz in quelle del tango. L'importante è capire perchè avvengono questi incontri. L'arte non è solo per gli artisti ma è per la gente. La musica serve proprio ad unire anche realtà completamente diverse e a farle capire. Mi piace la musica meno pretenziosa intellettualmente perché penso che in musica non si debba fare dell'esoterismo. Questo potrebbe essere buono per lo sviluppo del pensiero ma non per comprendere ed unire persone e culture diverse.
Con Enzo Favata ed i suoi musicisti c'è questa unione?
Certo, ed è stata la cosa più bella. Abbiamo percorso un cammino insolito nel mondo di oggi, così indirizzato all'imperialismo in tutti i settori. La vera sfida è scoprire e capire ciò che abbiamo davanti. A volte ciò non è facile ma è l'unica strada per creare una musica che vada contro quello che io chiamo etnocentrismo. Non dobbiamo mangiare quello che ci fanno trovare già pronto ma prepararci da soli il nostro cibo.
C'è un vero rinascimento fisarmonicistico in tutta la musica odierna, in un momento storico in cui sia nella produzione che nella fruizione musicale le linee di confine tra i generi saltano e le etichette nazionali sembrano servire esclusivamente per le esigenze di scaffalatura dei negozi di dischi. Volendo analizzare tale boom degli strumenti a mantice ed i fenomeni ad esso concomitanti lo studio della vicenda artistica di Gorni Kramer si rivela fondamentale. Kramer per primo, negli anni Trenta, ha giocato con gli stereotipi ed i generi musicali facendo interagire il mondo del folclore e della tradizione con l'America del Jazz, sinonimo in quel periodo di libertà intellettuale in senso lato oltre che di vitalità artistica. La realtà contadina incontra così l'utopia del sogno americano; la canzonetta post-operettistica viene travolta dal ritmo della musica hot; i virtuosismi fisarmonicistici delle mazurche variate o delle sinfonie d'opera vengono riconvertiti nella fluidità di fraseggi swing o stemperati nell'espressione del blues: tutto questo converge nell'opera di Kramer fin dall'inizio ed egli ci si presenta oggi come un anticipatore di quella tendenza alla "contaminazione" che sembra essere la caratteristica peculiare della musica degli ultimi anni. Il jazz e la musica leggera del nostro paese che solo a fatica e di recente hanno iniziato a sganciarsi dall'imitazione pedissequa dei modelli americani devono quindi considerare Kramer come un padre non tanto per motivi di ordine cronologico quanto per ragioni di vera e propria affinità poetica.
E' nella consapevolezza di ciò che Gianni Coscia da alcuni anni dedica interi concerti alla musica del maestro di Rivarolo Mantovano unendo, nel ricordo dell'amico scomparso, forte partecipazione emotiva e lucidità artistica esemplare. L'operazione di Coscia ci aiuta a cogliere l'estrema attualità di questo repertorio e ci mostra finalmente la figura di Kramer nelle sue reali dimensioni: non più soltanto eroico pioniere della fisarmonica di una mitica età dell'oro ormai perduta ma grande artista che con il suo lavoro ha contribuito alla costruzione del nostro patrimonio culturale contemporaneo.
SOUL SOUL
SOLITUDE
Emiliane bionde di cinquant'anni
SOUL SOUL
Fumatori incalliti
Semafori impazziti
incroci reiterati
per agognati sbagli di direzione
Apatie automobilistiche
SOUL SOUL
Mangio la pizza in paesi casuali
Rappresentante di me stesso
in cerca di niente
ascoltando musica
millantando il mondo
SOUL SOUL
Semifreddi della casa
come porticati in affitto
SOUL SOUL
Riflessioni in parcheggi
o in camere d'albergo
per trascorrere i rari anticipi d'occasione
che preludono la finta del caso
ultima menzogna
SOUL SOUL
SOLITUDE
Finisce presto
come il liquido dei tergicristalli
nel ricordo la maschera allegra
Nella radio In the City
sperando che il casellante autostradale
sia intonato al disco
e alle mie maniere di ex-fumatore.